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Sala Viglione del palazzo del Consiglio regionale
20 aprile 2016

IL TRIBUNALE PERMANENTE DEI POPOLI LE GRANDI OPERE E LA VAL SUSA

intervento di Sergio Foà, professore di diritto amministrativo nell'Università di Torino

 

Ringrazio per l’importante invito, che mi permette di contribuire al dibattito secondo la visuale del giurista che studia il diritto positivo.

Il diritto amministrativo è sicuramente implicato nel tema della partecipazione delle comunità locali alla realizzazione delle “grandi opere” e lo è anche sul rapporto tra tali attività e la tutela dei diritti fondamentali delle persone. Una volta si diceva che i diritti fondamentali non erano toccati dall’Amministrazione pubblica e che il giudice amministrativo non poteva occuparsi della loro tutela, ma questa affermazione è ormai superata proprio quando le scelte amministrative incidono profondamente sulla vita degli individui e ne modificano significativamente le condizioni.

In questo senso l’esame della sentenza del Tribunale dei Popoli assume rilevanza generale, riconducendo il caso concreto a un pervasivo modello generale di legislazione e di amministrazione: “Dal Tav alla realtà globale”.

Il giurista è solito partire dal dato normativo. Nel nostro caso esistono importanti riferimenti che assumono diretta rilevanza per l’iter amministrativo che ha segnato la realizzazione dell’opera.

In primo luogo l’accordo italo-francese del 29 gennaio 2001, ratificato in Italia con legge 27 settembre 2002, n. 228, secondo il quale la realizzazione della nuova linea sarebbe avvenuta dopo la saturazione della linea storica. Tale previsione normativa aveva efficacia vincolante per la progettazione e l’esecuzione dell’appalto, imponendo di verificare che tale presupposto fosse integrato. Niente nuova linea se non si satura quella vecchia. Per sostenere l’operazione, la saturazione è stata sostituita invece con l’inidoneità della vecchia linea a soddisfare le nuove esigenze. In diritto amministrativo la erronea valutazione dei presupposti è sintomo di eccesso di potere e vizia i provvedimenti che vengono adottati in tal modo.

In secondo luogo assumono rilevanza le norme, sempre più abbondanti, che esaltano il ruolo della partecipazione dei consociati all’attività amministrativa e che procedimentalizzano la stessa partecipazione, indicando come deve avvenire e quali conseguenze si verificano se essa non è intervenuta o non è stata condotta nel modo corretto. Partecipazione non spontanea ma “guidata” da norme stringenti e vincolanti!

L’analisi di queste previsioni normative è fondamentale e la sentenza qui in esame coglie bene, in modo nitido, gli aspetti problematici della loro applicazione. E, soprattutto, il loro impatto sui diritti dei singoli e delle comunità territoriali interessate.

Prima questione, assorbente, è legata alla partecipazione fittizia, che formalmente è avvenuta, ma è ineffettiva, perché non ha potuto incidere in alcun modo sulle scelte amministrative, anche se il Governo Monti, allora in carica, aveva orgogliosamente pubblicato che questo era “il primo caso di partecipazione condivisa e strutturata sulla realizzazione di un’opera pubblica strategica”. Nel criticare tale assunto, la sentenza del Tribunale dei Popoli è persino più prudente di quanto si sta ora affermando, perché il comunicato governativo era mendace e non teneva conto di quanto concretamente accaduto. Basti pensare al fatto che la partecipazione all’Osservatorio è stata limitata ai soli Comuni che erano d’accordo sulla realizzazione dell’opera: si tratta della negazione dell’essenza stessa della partecipazione, consentita solo a chi ha la stessa idea e nella misura in cui la condivide senza riserve. È partecipazione sterilizzata.

Altro aspetto è relativo alla (in)effettività della tutela giurisdizionale e alla diversa sensibilità della giustizia nell’affrontare i casi concreti.

Abbiamo un atteggiamento della giustizia amministrativa molto formale, che tende a ridurre ex ante l’ambito dei soggetti legittimati a reagire, soprattutto dei portatori di interessi collettivi, che debbono avere determinati requisiti strutturali e organizzativi, in modo da evitare il rischio di “comitati – polvere” e di singoli cittadini che rallentino il cammino della giustizia (così il recente parere del Consiglio di Stato sullo schema del nuovo Codice dei contratti pubblici riguardo al “dibattito pubblico”). È una giustizia selettiva, molto filtrata e assai costosa (si pensi all’ammontare del contributo unificato, all’abuso del processo e allo squilibrio tra le parti).

Il legislatore orienta invece la giustizia penale militarizzando il territorio e inasprendo le pene per chi viola una “zona strategica” come questa (che diviene tale all’occorrenza), con una riconduzione delle forme di protesta alla condotta che offende lo Stato e la sua “strategia”. La sensazione che sia criminalizzata la protesta è ben percepita dal Governo, che nel proprio Dossier sulla sicurezza rovescia l’addebito imputando alle comunità locali in disaccordo una “strumentalizzazione del disagio”.

Con le Raccomandazioni al Governo e al legislatore, la sentenza del Tribunale dei Popoli auspica che si rimetta mano alla legislazione sulle opere strategiche: legge-obiettivo del 2001 e c.d. decreto “Sblocca-Italia” del 2014, approvati secondo una inequivocabile linea di continuità.

Il regime delle opere c.d. “strategiche” è un regime di eccezione: già quando fu approvata la legge obiettivo si affrontò a livello giuridico la qualificazione “eccezionale” della legge anziché “speciale”. Il termine è forte e giuridicamente preoccupante, rievoca periodi molto tristi ove la legge serviva a giustificare una deroga a un sistema di principi. La legge obiettivo nasceva così e la legislazione successiva ha perseverato nel regime di eccezione riferito a tutto ciò che è “strategico”.

Conviene dunque valutare in quale direzione si sta muovendo ora l’esecutivo e quali provvedimenti legislativi ne conseguano. In modo sintetico si può notare che il pacchetto di norme che riformano la Pubblica amministrazione (c.d. Legge Madia, legge n. 124 del 2015 e relative deleghe), riferite ai procedimenti amministrativi, alla conferenza di servizi, alle società partecipate, ecc. assegna compiti risolutivi, nella definizione dell’azione amministrativa, allo strumento del d.P.C.M. (decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri).

L’art. 22 del nuovo Codice dei contratti pubblici (d. lgs. n. 50 del 2016) ha introdotto nel nostro ordinamento il “dibattito pubblico” mutuandolo dall’analogo istituto del diritto francese e peggiorandolo rispetto al modello di riferimento, dove già ha manifestato molti punti di debolezza. In Francia, ferma la necessità di individuare quali soggetti coinvolgere, il dibattito è regolato da una Autorità indipendente e, al suo esito, prevede un Garante che deve monitorare e garantire la concertazione successiva e l’effettiva esecuzione di quanto concordato. In Italia alle domande su quali opere vada fatto, chi partecipi, come viene gestito e chi garantisce l’applicazione del suo risultato, la risposta è data in maniera perplessa dalla legge-delega e in maniera univoca dal decreto delegato.

La legge-delega al punto qqq) afferma che le “osservazioni elaborate in consultazione pubblica entrano nella valutazione in sede di predisposizione del progetto definitivo”. La locuzione “entrano” imbarazza il giurista e allora viene tradotta dal Governo nel decreto delegato, che riprende l’affermazione aggiungendo che comunque tali osservazioni “saranno discusse in conferenza di servizi”. Ma quando e come? Solo sulle opere individuate con d.P.C.M. e solo nei tempi e con le modalità indicate dal medesimo d.P.C.M., che ovviamente al momento manca. Visto che la vera decisione avverrà in conferenza di servizi, tale istituto è stato riscritto dalla legge Madia e dal relativo (schema) di decreto legislativo delegato.

Nei decreti delegati della Riforma si delinea e si rimarca una disciplina specifica per le opere strategiche, ove emerge una chiarissima gerarchia nella valutazione degli interessi pubblici. Sul punto ci si può collegare al passaggio della Sentenza del Tribunale dei Popoli che sottolinea il capovolgimento del rapporto tra diritti umani e diritti economici. Sono i secondi a accelerare l’azione amministrativa e a penalizzare le istanze partecipative, assecondando l’idea di una pubblica amministrazione “forte con i deboli e debole con i forti”.

Sui procedimenti amministrativi, la legge Madia distingue attività di particolare importanza e solo per esse prevede una abbreviazione fino alla metà dei termini di conclusione: ciò che lascia comunque immaginare che i termini originari fossero sbagliati. Quali siano questi procedimenti “accelerati” lo dirà un d.P.C.M. Le collettività territoriali che abbiano dei progetti che ritengono strategici potranno richiedere direttamente al Presidente del Consiglio dei Ministri di includere tali opere all’interno dei piani strategici, al fine di ottenere l’abbreviazione dei termini.

Tale regime preferenziale vale solo per “attività di impresa positive per l’economia”, infrastrutture strategiche (che, in carenza di legge obiettivo, saranno appunto definite da d.P.C.M.) e “insediamenti di preminente interesse nazionale”, in tal modo estromettendo le comunità locali. Se non fossero di preminente interesse nazionale e le autorità locali non rispettassero i termini nell’esercizio delle loro competenze, è previsto il potere sostitutivo del Presidente del Consiglio dei Ministri. Anche in questo caso la tensione tra comunità locali e “strategia centrale” trova soluzione dall’alto.

Riguardo alla conferenza di servizi, il Presidente del Consiglio dei Ministri potrà assumere determinazione conclusiva “con contenuti prescrittivi” anche qualora non si raggiungano accordi convocando le Amministrazioni dissenzienti.

Questo il quadro normativo in costruzione, che muove in continuità con il passato.

Il parere del Consiglio di Stato sul Codice dei contratti pubblici e in particolare sul dibattito pubblico censura con tono profondamente critico la possibilità di consentire la costituzione di comitati di cittadini ad hoc, come superamento della prospettiva elaborata dai giudici amministrativi. Dare più voce ai rappresentanti del territorio è vista come azione incauta, perché ingenererebbe il rischio della “polverizzazione del dibattito” e quindi di “ingestibilità dei lavori delle conferenze nelle sedi dove il dibattito va gestito”. Le osservazioni, poi, potrebbero essere fornite anche da singoli cittadini non ammessi formalmente al dibattito: evenienza che dovrebbe essere scongiurata per l’economia complessiva dei procedimenti e, visto il loro carattere “strategico”, per l’economia complessiva del Paese.

Questo quadro normativo e amministrativo mostra anche differenti profili di violazione delle disposizioni di diritto internazionale pattizio, prima fra tutte la Convenzione di Aarhus che richiede una partecipazione effettiva nella determinazione delle scelte così impattanti sul territorio e sul suo futuro, evidentemente superando letture formalistiche che ammettono partecipazioni fittizie e sterilizzate, come si è detto prima.

Ma la effettività dei diritti dei consociati e delle comunità locali dipende dalla combinazione concorrente di tre piani di analisi: quello normativo diretto agli amministrati e alla azione della pubblica amministrazione, quello amministrativo che lascia alla macchina burocratica scelte discrezionali e tecniche nei limiti consentiti dalla legge e quello giurisdizionale che deve valutare se in concreto le previsioni normative sono state rispettate, nel caso di interesse, dagli attori coinvolti nell’attuazione delle politiche pubbliche.

Si può notare che negli ultimi anni il nostro sistema giuridico tende a accentrare a livello politico decisioni che richiederebbero per contro una più attenta e concreta attività di bilanciamento di interessi sul territorio, in applicazione peraltro del noto principio costituzionale di sussidiarietà. L’avocazione delle scelte a livello politico le rende tendenzialmente insindacabili, almeno nell’ordinamento interno laddove l’indirizzo è libero nel fine, salvo che violi la Carta costituzionale.

I principi di diritto amministrativo che insegniamo quotidianamente all’Università dovrebbero già fornire risposte ai dubbi di legittimità che si sono prospettati e che bene la sentenza del Tribunale dei Popoli ha censurato. La partecipazione deve essere effettiva. Deve avvenire ex ante, sul se, sul dove e sul come realizzare le opere pubbliche. La prevalenza della sostanza sulla forma è principio generale del diritto, sia sostanziale sia processuale. Riconoscere la partecipazione solo per poter dire che qualcuno è stato sentito, è una offesa ai diritti delle persone. Non “Stato-persona” come soggetto di diritto lontano ma “Stato-comunità”.

Sulla Terra in questi tempi il denaro è re assoluto (Carmina Burana)