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«In questi anni in Val Susa, a fianco del cantiere per il treno che non c’è, si è sviluppato un cantiere parallelo...»
Intervento di Livio Pepino all'incontro di Bussoleno del 16 ottobre 2022: "Associazione a resistere"


Associazione a resistere
Proteggiamo la protesta
Bussoleno, 16 ottobre 2022

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In questi anni in Val Susa, a fianco del cantiere per il treno che non c’è, si è sviluppato un cantiere parallelo: un cantiere che ha a che fare con la ridefinizione delle tecniche di governo della società di fronte al dissenso, alla protesta, alle lotte sociali. Non è l’unico cantiere in questo senso (basti pensare a quelli paralleli dell’immigrazione e della cosiddetta sicurezza urbana) ma è un cantiere illuminante, una lente di ingrandimento sui processi in atto. Quel che cercherò di fare in questo intervento è individuare alcuni passaggi di questa operazione, il loro significato politico, le prospettive che si aprono (soprattutto dopo la vittoria della destra)

I.

Cominciamo dal cantiere della Val Susa. Tra i molti passaggi che lo caratterizzano ne segnalo 5, per me fondamentali:

  1. Una saldatura inedita (almeno in questi termini) tra media, politica e apparati repressivi:
    • intendiamoci: il ruolo dei media torinesi come portavoce del potere è una costante da sempre, in particolare dagli anni del monopolio informativo de La Stampa (non a caso meritatasi l’appellativo di la busiarda), ma quel che va segnalato è che l’approdo in città di Repubblica, Corriere e redazione regionale del TG3, lungi dal produrre pluralismo, ha reso questa saldatura ancora più forte e che i media si sono trasformati sempre più in bollettini di regime (spesso costruiti sulle veline di TELT e della Procura di Torino) [La fabbrica del consenso”, 31 marzo 2019]
    • la novità degli ultimi decenni, poi, è stata l’emergere di una narrazione unica da parte non solo dei media e dei poteri forti (la Fiat, il San Paolo, Confindustria) ma di tutta la politica (con eccezioni davvero minime) e di tutte le istituzioni.
      [nota: sottolineo, per esempio, «l’apprezzamento per come magistratura e forze dell'ordine stanno operando in quella tormentata area della Valsusa» espresso dal presidente della Repubblica Napolitano, dopo l’emissione delle misure cautelari di fine gennaio 2012 nei confronti di 25 esponenti No Tav, con un intervento anomalo che trova precedenti, a mia memoria, solo all’epoca di Giuseppe Saragat negli anni Sessanta]

      È la costruzione mediatica del nemico (ci sarà poi una costruzione legislativa e giudiziaria ma il primo passo è la costruzione mediatica).

  2. L’affermarsi di una sorta di stato di eccezione, con l’istituzione di zone rosse, soggette a un regime giuridico particolare, e la militarizzazione del territorio. La presenza massiccia di forze dell’ordine e finanche di reparti dell’esercito è una costante addirittura del paesaggio valsusino. Ma non c’è solo questo:
    • in Val Susa opera da 10 anni la legge n. 183/2011 il cui art. 19 prevede, sotto la rubrica «Interventi per la realizzazione del corridoio Torino-Lione e del Tunnel del Tenda», che: «Per assicurare la realizzazione della linea ferroviaria Torino-Lione e garantire, a tal fine, il regolare svolgimento dei lavori del cunicolo esplorativo de La Maddalena, le aree ed i siti del Comune di Chiomonte, individuati per l’installazione del cantiere della galleria geognostica e per la realizzazione del tunnel di base della linea ferroviaria Torino-Lione, costituiscono aree di interesse strategico nazionale. / Fatta salva l’ipotesi di più grave reato, chiunque si introduce abusivamente nelle aree di interesse strategico nazionale di cui al comma 1 ovvero impedisce o ostacola l’accesso autorizzato alle aree medesime è punito a norma dell’articolo 682 del codice penale»;

    • dal 22 giugno 2011 sono, se ho ben contato, 49 le ordinanza prefettizie (sostanzialmente ordinanze fotocopia) che, con riferimento alle strade di accesso alla Maddalena, vietano «fino al venir meno delle preminenti esigenze di ordine pubblico, l’ingresso e lo stazionamento di persone, mezzi e cose estranei allo svolgimento delle previste attività connesse con l’apertura del cantiere». Ordinanze – si badi – che partono ancor prima degli scontri del 27 giugno e del 3 luglio e che sono rinnovate 10 anni benché l’art. 2 TULPS ne preveda la possibilità solo «nel caso di urgenza e per grave necessità pubblica» e il Consiglio di Stato abbia ripetutamente stabilito che le ordinanze contingibili e urgenti non possono disciplinare una situazione in modo stabile, ma debbono necessariamente possedere il carattere della temporaneità (Cons. Stato, sez V, n. 580 del 9 febbraio 2001; Cons. Stato, sez. IV – n. 6169 del 13 ottobre 2003).

  3. Una gestione dell’ordine pubblico fondata sulla guerra al nemico interno e sulla contrapposizione frontale (anche con nuovi strumenti di offesa e con lacrimogeni a gogò), in cui non c’è spazio per soluzioni concordate che, negli ultimi decenni del secolo scorso, e fino a Genova 2001, erano state ampiamente sperimentate.

  4. L’assunzione da parte della magistratura di un ruolo di diretta tutela dell’ordine pubblico. L’intervento penale ha per definizione carattere repressivo e, in ogni sistema, la violazione della legge penale ha – come conseguenza obbligata – un seguito processuale e la possibilità di una condanna. Il punto non è, dunque, questo ma, il fatto che il sistema giudiziario si trasformi da sistema di accertamento imparziale e garantito di eventuali responsabilità in protagonista di politiche di tutela dell’ordine pubblico grazie a numerose forzature. Mi limito a segnalarne alcune:

    1. il numero massiccio di denunciati, arrestati e indagati e le modalità di gestione dei processi (con corsie preferenziali e disparità di trattamento): in Val Susa in 9 anni (dal 2011 al 2019) gli imputati sono stati oltre 2.000 (con una punta di 327, quasi uno al giorno, nel 2011) con una incidenza territoriale percentuale che non ha pari nemmeno nei territori di mafia. Quanto alle corsie preferenziali: a Torino i processi a esponenti del movimento No TAV hanno visto per anni un pool ad hoc e tempi rapidissimi (anche per reati bagatellari come il taglio delle reti) a fronte non solo di altri ben più gravi reati ma anche dei delitti commessi da appartenenti alle forze dell’ordine [nota: tuttora attuale e illuminante al riguardo è il documentario “Archiviato!”].
      Si aggiunga che il pool, caso unico nella nostra storia giudiziaria, venne istituito nel gennaio 2010 e dunque non come risposta organizzativa al moltiplicarsi dei procedimenti, ma prima dell’esplodere del conflitto e dei conseguenti reati, in un’ottica evidentemente preventiva.

    2. la dilatazione impropria del concorso di persone nel reato, con una sorta di proprietà transitiva in forza della quale la responsabilità viene estesa a tutti i partecipi a manifestazioni nel corso delle quali vengono commessi reati, pur in assenza di specifiche condotte individuali antigiuridiche e/o della prova di un previo accordo con gli autori dei delitti commessi. Un caso per tutti: «È superflua l’individuazione dell’oggetto specifico che ha raggiunto ogni singolo appartenente alle forze dell’ordine rimasto ferito, come lo è l’individuazione del manifestante che l’ha lanciato, atteso che tutti i partecipanti agli scontri devono rispondere di tutti i reati (preventivati o anche solo prevedibili) commessi in quel frangente, nel luogo dove si trovavano» (ordinanza Giudice per le indagini preliminari Torino, 20 gennaio 2012). Così il principio classico del carattere individuale della responsabilità penale sfuma lasciando spazio a una sorta di anomala «responsabilità da contesto» e dilatando il potere discrezionale di polizia e PM nella scelta di chi imputare e di chi lasciare indenne);

    3. la individuazione, come elementi costitutivi di alcuni reati tipici del conflitto sociale, di condotte che sono esplicazione di diritti fondamentali. È il caso delle contestazioni di reati di resistenza a pubblico ufficiale e di violenza privata in cui ai fini della sussistenza del reato si fa riferimento alla «minaccia implicita determinata dal numero di persone schierate». Evidente la forzatura e la sostanziale cancellazione di diritti costituzionali fondamentali, posto che le manifestazioni e i picchetti prevedono per definizione la presenza di più persone;

    4. il ricorso a fattispecie di reato (a dir poco) sovradimensionate. Il massimo della esemplarità sta nella contestazione del delitto di «attentato per finalità terroristiche» (art. 280 codice penale) in relazione al noto “assalto” al cantiere della Maddalena con danneggiamento di un compressore. Evidenti i reati di danneggiamento aggravato e di violenza a pubblico ufficiale, ma cosa c’entra il terrorismo? Eppure esso viene evocato facendo ricorso a due argomenti grotteschi: a) l’idoneità del fatto ad arrecare un grave danno al Paese (con il venir meno della sua immagine, in ambito europeo, di partner affidabile »); b) l’attitudine dell’attacco al cantiere, in considerazione delle sue modalità e coerentemente con l’obiettivo perseguito, a intimidire la popolazione valsusina e/o a costringere i poteri pubblici ad astenersi dalle attività necessarie per realizzare la nuova linea ferroviaria Torino-Lione;
      [nota: l’infondatezza dell’impostazione ha determinato l’esclusione del reato in tutti i gradi del giudizio e da parte della corte di legittimità ma la contestazione non è rimasta senza effetto sortendo numerosi effetti: a) un anno di carcere duro per gli imputati, in condizioni di sostanziale isolamento; b) un anno di massacro mediatico per gli imputati e per l’intero movimento no tav; c) la possibilità di procedere a intercettazioni telefoniche sostanzialmente illimitate nei confronti di interi settori del movimento; d) l’effetto di induzione per i giudici, pur nel momento in cui hanno escluso il reato, a mantenere livelli di pena più elevati del consueto per i reati residui (con un processo psicologico automatico seppur inconscio)]

    5. l’uso massiccio, anche nei confronti di incensurati, di misure cautelari trasformate da extrema ratio in regola con torsioni gravissime, strappi evidenti anche alla legalità formale e passaggi motivazionali a dir poco paradossali, come quello secondo cui: «la custodia cautelare in carcere è il minimo presidio idoneo a fronteggiare in modo adeguato le suddette consistenti ed impellenti esigenze cautelari» (ordinanza TL Torino 8 febbraio 2012), e con ricorso pressoché esclusivo, come condizione legittimante la misura alla pericolosità sociale.
      [nota: Le misure sono state fondate pressoché sempre sulla pericolosità sociale (rischio di commissione di analoghi reati) così trasformando le misure da strumenti interni al processo in misure di polizia. Anche qui con esplicite ammissioni negli stessi provvedimenti applicativi. Per esempio, nell’ordinanza 20 gennaio 2012 il gip di Torino lo dice quasi con candore, attribuendo alla misura applicata una valenza di diretta e immediata tutela dell’ordine pubblico e individuando in modo esplicito il movimento No Tav e la sua azione di protesta come pericoli incombenti: «I lavori per la costruzione della linea ferroviaria Torino-Lione proseguiranno almeno altri due anni; pertanto, non avrà fine, a breve termine, il contesto in cui gli episodi violenti sono maturati; per altro, il movimento No Tav ha pubblicamente preannunciato ulteriori iniziative per contrastare i lavori». L’individuazione dei destinatari delle misure è inoltre avvenuta per lo più in base al principio del tipo d’autore: la pericolosità è stata spesso tratta da segnalazioni di polizia risalenti anche a molti anni addietro (senza verifica dell’esito dei conseguenti processi). Si è arrivati finanche alla sottolineatura della pericolosità di un indagato incensurato (ancorché gravato da tre denunce, due delle quali risalenti ad oltre sette anni addietro) desunta dalla circostanza che «nel 1970 è contiguo ai movimenti della sinistra extraparlamentare “Lotta continua” e “Potere operaio” e partecipa a una manifestazione non preavvisata all’autorità di pubblica sicurezza, promossa dai predetti movimenti» (gip Torino, 20 gennaio 2912). Si noti che quell’imputato sarà condannato, nel giudizio di primo grado, a 2 mesi di reclusione]
      Inoltre l’esclusione del giudizio prognostico di concedibilità della sospensione condizionale della pena (che osterebbe all’applicazione della custodia in carcere) è diventata una clausola di stile. Esemplare il caso dei 25 imputati sottoposti alla misura della custodia in carcere per resistenza e violenza a pubblico ufficiale in relazione allo sgombero del cantiere della Maddalena del 27 giugno 2011 e alla successiva manifestazione del 3 luglio. Un mio rilievo di allora (Gli arresti non tornano, il manifesto, 29 gennaio 2012) sulla agevole previsione di concessione, all’esito del giudizio, della sospensione condizionale provocò polemiche a non finire. Oggi, come era ampiamente prevedibile, di quei 25 imputati, 4 sono stati stralciati e saranno giudicati separatamente; degli altri 21, 4 sono stati assolti per non aver commesso i fatti contestati, 8 sono stati condannati con sospensione condizionale della pena (e di essi due hanno riportato condanne, rispettivamente a 2 e a 4 mesi per reati bagatellari), 9 sono stati condannati a penne comprese tra 1 e 2 anni di reclusione.

  5. L’individuazione (o il recupero) di strumenti repressivi aggiuntivi rispetto alla repressione penale. Mi limito a citarne 2:
    • l’uso massiccio (in aggiunta alle misure cautelari) di misure di prevenzione o di polizia, in particolare l’avviso orale e il foglio di via e l’obbligo di soggiorno, usate, soprattutto negli ultimi tempi, contro esponenti del movimento a cui viene intimato dal questore, per lo più con motivazioni tautologiche, di allontanarsi da un determinato comune, di dimorare nel comune di residenza e di astenersi dal frequentare determinati luoghi prossimi al cantiere. Va aggiunto che tali misure, ad eccezione del foglio di via, costituiscono anche il presupposto per il mancato rilascio o la revoca da parte del prefetto della patente di guida per «coloro che sono o sono stati sottoposti alle misure di prevenzione previste dalla legge 27 dicembre 1956, n. 1423 » (art. 120 Codice della strada: “Requisiti morali per ottenere il rilascio della patente di guida”).
    • azioni civili vessatorie. È il caso della condanna al risarcimento del danno (quantificato in 191.966,29 euro e spese processuali) inflitta il 7 gennaio 2014 dal Tribunale di Torino - sezione distaccata di Susa (e solo in parte attenuata in appello) a tre esponenti del movimento (Perino, Bellone, Vair) per essersi opposti, insieme a molti altri, alla effettuazione, da parte di tecnici assistiti dalla forza pubblica, di sondaggi propedeutici alla costruzione della linea ferroviaria Nessuna analisi, in motivazione, sulle ricadute in concreto del doveroso bilanciamento tra interessi egualmente forniti di protezione costituzionale (il diritto alla salute e all’ambiente da un lato e quello di iniziativa economica dall’alto). Come dire che il mancato accesso di un camion in uno stabilimento a causa di un picchetto di lavoratori in sciopero comporta la responsabilità degli scioperanti presenti per tutti i danni conseguenti alla mancata produzione, anche di giorni o mesi, ricollegabile in qualche misura alla indisponibilità del materiale trasportato sul camion!

II.

Quel che è accaduto (e accade in Val Susa) ha avuto (ed ha) riscontri significativi sul piano nazionale:

  1. La saldatura tra media, politica e apparati repressivi ha avuto un incremento decisivo in questi ultimi tempi sotto la spinta della pandemia prima e della guerra poi. Il pensiero unico è tale non perché non esista un pensiero diverso (seppur minoritario) ma perché quest’ultimo non è considerato un polo dialettico con cui confrontarsi ma un fenomeno fuori della accettabilità sociale che delinea, appunto, l’area del nemico (a cui dare spazio, anche sui media, ma esclusivamente per mostrarne l’abnormità e, dunque, per isolarlo).

  2. Lo stato di eccezione si consolida ed è ormai una costante delle politiche di governo della società a livello nazionale anche sul piano teorico (con modalità che riprendono prassi in uso nell’Italia liberale, con le ripetute dichiarazioni di stato di assedio in aree specifiche del territorio comportanti il passaggio dei poteri amministrativi all’esercito). Ovviamente c’è, da ultimo, il macigno della pandemia ma gli esempi possibili sono molti. Due su tutti:

    • l’istituzione, con il decreto Minniti-Orlando (decreto legge 20 febbraio 2017, n. 14 convertito in legge 18 aprile 1917, n. 48), del cosiddetto DASPO urbano, che riprende lo strumento introdotto nel nostro sistema per gli hooligans del calcio con la legge 13 dicembre 1989 n. 401
      [nota:
      Art. 9: «Chiunque ponga in essere condotte che limitano la libera accessibilità e fruizione delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi ivi previsti, è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 100 a euro 300. Contestualmente alla rilevazione della condotta illecita, al trasgressore viene ordinato l'allontanamento dal luogo in cui è stato commesso il fatto. / I regolamenti di polizia urbana possono individuare aree urbane su cui insistono musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura interessati da consistenti flussi turistici, ovvero adibite a verde pubblico, alle quali si applicano le disposizioni di cui ai commi 1 e 2».
      Art. 10: «Nei casi di reiterazione delle condotte il questore, qualora dalla condotta tenuta possa derivare pericolo per la sicurezza, può disporre, con provvedimento motivato, per un periodo non superiore a sei mesi (poi prolungato, ndr), il divieto di accesso ad una o più delle aree di cui all'articolo 9, espressamente specificate nel provvedimento».]


      È la logica delle “zone rosse” (cioè di aree delle città in cui è vietato l’accesso a singoli o categorie di persone). Com’era facile prevedere la misura si è estesa presto anche al settore del dissenso politico e delle manifestazioni di protesta (ottobre 2018: DASPO su Roma per due anni per gli operai di Pomigliano licenziati per aver inscenato il funerale di Marchionne e autori di una protesta pacifica di fronte al ministero per lo sviluppo);

    • l’estensione della militarizzazione dal territorio alle istituzioni: pensiamo al ruolo, anche nell’immaginario collettivo, del generale Figliuolo, assunto a simbolo in tuta mimetica di una efficiente lotta alla pandemia.

  3. Quanto alla gestione dell’ordine pubblico, la sua torsione muscolare e violenta è sotto gli occhi di tutti. Inutile persino sottolinearlo. Meglio ricordare che questo mutamento è stato determinato (o comunque favorito) da modifiche legislative che hanno segnato il nostro sistema invertendo la tendenza culminata nella depenalizzazione del 1999. Si è partiti nel 2009 con la nuova penalizzazione dell’oltraggio per arrivare sino ai vari decreti che hanno trasformato i sindaci in sceriffi e, poi, ai decreti sicurezza di Salvini (contestati, a ragione, per le norme in tema di immigrazione, ma passati sotto silenzio per quelle sul conflitto sociale):

    1. con il decreto legge n. 113/2018 (primo decreto Salvini) viene ripristinato in toto (salvo il caso, introdotto in sede di conversione, di ostruzione stradale realizzata con il solo corpo [sic!]) il reato di blocco ferroviario e stradale già previsto dal decreto legislativo 22 gennaio 1948 n. 66 e parzialmente depenalizzato nel 1999; vengono aumentate in modo abnorme le pene stabilite nell’art. 633 codice penale per il reato di invasione o occupazione di terreni o edifici (con una forbice da uno a tre anni di reclusione nell’ipotesi base e da due a quattro anni in quella aggravata) e introdotta la possibilità, nell’ipotesi aggravata, di procedere a intercettazione di conversazioni o comunicazioni;

    2. con decreto legge n. 53/2019 (secondo decreto Salvini) ci sono:
      • aumento (arresto da 2 a 3 anni), con arresto in flagranza, pena per caschi nel corso manifestazioni;
      • aumento pene per oltraggio, resistenza e violenza a pubblico ufficiale se commessi nel corso di manifestazioni o con lancio oggetti o artifici pirotecnici;
      • aumento pene per interruzione pubblico servizio nel corso di manifestazioni (fino a 2 anni);
      • aumento pene per devastazione e anche danneggiamento (da 1 a 5 anni) nel corso di manifestazioni (con forti limitazioni a sospensione condizionale della pena);
      • impossibilità di proscioglimento per particolare tenuità del fatto addirittura per l’oltraggio a pubblico ufficiale
        [nota: A fronte dell’inasprimento delle pene in caso di reati commessi nel corso di manifestazioni merita considerare che persino il codice Rocco prevedeva (e prevede) un’attenuazione della pena «per aver agito per suggestione di una folla in tumulto» (art. 62 n. 3)]

  4. L’intervento giudiziario in funzione di tutela diretta dell’ordine pubblico e dell’assetto sociale vigente si è intensificato in diversi settori, da ultimo in particolare nei confronti di lavoratori della logistica, fino ad arrivare alla configurazione, da parte del gip di Piacenza, di alcune organizzazioni sindacali come associazioni per delinquere. Non mi ci soffermo solo perché sarà oggetto di altra specifica relazione.

  5. Altri strumenti repressivi:
    • le azioni civili promosse da parte padronale contro singoli lavoratori della logistica e contro alcuni sindacati di base (in particolare Si Cobas) e la revoca del permesso di soggiorno nei confronti di lavori stranieri coinvolti nelle manifestazioni e delle proteste;
    • l’uso indiscriminato dei fogli di via (resurrezione del domicilio coatto): quando addirittura negli anni ’50 i maggiori costituzionalisti (a cominciare da un giovane Giuliano Amato contestavano la costituzionalità delle misure di prevenzione);
    • nel settore parallelo dell’immigrazione l’uso a regime della detenzione amministrativa dei migranti.

 

III.

Nella nostra storia nazionale i protagonisti del conflitto sociale sono stati sempre considerati dei nemici
[nota: Epoca liberale (ripetute dichiarazioni stati di emergenza con impiego dell’esercito fino a episodi come i cannoni del generale Bava Beccaris a Milano contro la folla che chiedeva pane). Secondo dopoguerra e fino agli anni ’70: l’asprezza del conflitto politico e sociale dei primi decenni del dopoguerra lasciò sulle strade e nelle piazze del Paese, tra il 1946 e il 1977, ben 156 morti: 14 tra le forze di polizia e 142 tra i dimostranti].

Negli ultimi decenni del secolo scorso sembrava iniziata una diversa stagione ma poi c’è stata la descritta inversione di rotta, destinata a incrementarsi ulteriormente con il governo e la maggioranza parlamentare di una destra reazionaria e autoritaria a cui già si devono (invero senza opposizione da parte del centro sinistra) alcuni dei ricordati irrigidimenti normativi e proposte legislative come l’istituzione della manifestazioni “a pagamento” e l’estensione del DASPO alle manifestazioni sindacali e sociali.
La situazione attuale può essere sintetizzata con parole di un osservatore insospettabile: «Oggi, alcuni settori economici esercitano più potere che gli stessi Stati: una realtà che risulta ancora più evidente in tempi di globalizzazione del capitale speculativo. Il principio di massimizzazione del profitto, isolato da ogni altra considerazione, conduce a un modello di esclusione – automatico! ‒ che infierisce con violenza su coloro che patiscono nel presente i suoi costi sociali ed economici, mentre si condannano le generazioni future a pagarne i costi ambientali. La prima cosa che dovrebbero chiedersi i giuristi oggi è che cosa poter fare con il proprio sapere per contrastare questo fenomeno, che mette a rischio le istituzioni democratiche e lo stesso sviluppo dell’umanità. In concreto, la sfida presente per ogni penalista è quella di contenere l’irrazionalità punitiva, che si manifesta, tra l’altro, in reclusioni di massa, affollamento e torture nelle prigioni, arbitrio e abusi delle forze di sicurezza, espansione dell’ambito della penalità, la criminalizzazione della protesta sociale, l’abuso della reclusione preventiva e il ripudio delle più elementari garanzie penali e processuali» (papa di Roma che, nel Discorso ai partecipanti al XX Congresso mondiale dell’Associazione internazionale di diritto penale del 15 novembre 2019).
La domanda è: perché siamo di nuovo a questo punto? Le ragioni sono molte ed eterogenee. Nell’impossibilità, per ragioni di tempo, di analizzarle provo, almeno, a enunciarne alcune:

  1. C’è anzitutto la mancanza di rappresentanza politica dei protagonisti del conflitto a cui si accompagna, per il mondo del lavoro, la debolezza del sindacato e l’assenza di un’opinione pubblica impegnata, seppur minoritaria. L’esistenza, al contrario, di una situazione siffatta portò per esempio, all’indomani delle grandi lotte del 1969, alla definizione delle pendenze giudiziarie nientemeno che con un provvedimento – oggi impensabile – di amnistia politica concessa con l’articolo 1 del decreto presidenziale del 22 maggio 1970
    [nota:Merita segnalare che la stagione dell’autunno caldo del 1969 si concluse con l’amnistia politica concessa con l’art. 1 del decreto presidenziale 22 maggio 1970 estesa a tutti i reati «commessi, anche con finalità politiche, a causa e in occasione di agitazioni o manifestazioni sindacali o studentesche, o di agitazioni o manifestazioni attinenti a problemi del lavoro, dell'occupazione, della casa e della sicurezza sociale e in occasione ed a causa di manifestazioni ed agitazioni determinate da eventi di calamità naturali» punibili con una pena non superiore nel massimo a cinque anni e, sempre alle stesse condizioni, per la violenza o minaccia a corpo politico o amministrativo, la devastazione, gli attentati alla sicurezza di impianti, il porto illegale di armi o parte di esse e l’istigazione a commettere taluno dei reati anzidetti. Da notare che nel solo ultimo quadrimestre del 1969, secondo i dati del ministero dell’Interno (contestati nel dibattito parlamentare per la loro inesattezza per difetto), erano state denunciate 8.396 persone per 14.036 reati, tra i quali 235 per lesioni personali, 19 per devastazione e saccheggio, 4 per sequestro di persona, 124 per violenza privata, 1.610 per blocchi stradali e ferroviari, 29 per attentati alla sicurezza dei trasporti, 3.325 per invasione di aziende, terreni ed edifici e 1.376 per interruzione di pubblici servizi. Disse, allora, il relatore della legge autorizzativa dell’amnistia che occorreva dare risposta al «disagio diffuso nella pubblica opinione che, pur deprecando taluni episodi di autentica delittuosità e pericolosità sociale, ritiene in gran parte sproporzionata e sostanzialmente ingiusta la rubricazione di quelle vicende sotto titoli di reato che erano stati dettati in un’epoca in cui era sconosciuta la realtà storica dei conflitti che caratterizzano tutti gli Stati moderni»]

  2. C’è poi il consolidamento di un pensiero dominante, che tende a diventare unico ed è stato avallato anche a sinistra, secondo cui oggi, nel conflitto sociale c’è una particolare violenza. È vero, in realtà, il contrario ché la situazione attuale nel nostro Paese è di un conflitto sociale a bassa intensità: basta riandare alle tappe principali della storia del dopoguerra (con i veri e propri moti successivi all’attentato a Togliatti, la sommossa di Genova del luglio 1960, le manifestazioni di piazza Statuto e di corso Traiano a Torino o, ancora, alcune manifestazioni del 1968; e lo stesso vale anche, sull’opposto versante, per Reggio Calabria e il movimento dei “boia chi molla” che, tra il 1970 e il 1971 paralizzò la città per sei mesi con 6 morti, assalti alla questura e alla prefettura, carri armati sul lungo mare). Questo pensiero è in realtà il portato di uno stile di governo della società, della strumentalizzazione della paura, della considerazione di ogni opposizione radicale in quanto tale alla stregua di un delitto.

  3. Tutto ciò avviene mentre è sempre più evidente il passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale o, se preferite, dalla guerra alla povertà alla guerra ai poveri. Ciò che non si governa con l’inclusione si governa con la repressione creando una cultura che si estende dal settore delle migrazioni a quello del conflitto sociale. Lo dimostrano anzitutto i numeri che, come noto, hanno la testa dura. Il 31 dicembre 1969 (50 anni fa) i detenuti erano 34.852 (e sarebbero diventati 23.190 alla fine dell’anno successivo, dopo l’amnistia) mentre il 30 settembre scorso erano 55.385 dopo che, il 30 giugno 2010 si era raggiunto il picco di 68.258. Non si tratta di un dato episodico. Le presenze in carcere sono cresciute, negli ultimi trent’anni in maniera vertiginosa e hanno cominciato a diminuire solo dopo il 2012 quando una serie di provvedimenti tampone, imposti da condanne in sede europea e dall’esplodere della pandemia, le ha ridotte gradualmente prima di riprendere nuovamente a salire a partire da fine 2016. E il fatto più significativo e apparentemente sorprendente peraltro è che la crescita dei detenuti è avvenuta mentre diminuivano sia i reati denunciati all’autorità giudiziaria sia gli ingressi in carcere dalla libertà
    [nota: Per limitarsi al dato più eclatante, gli omicidi sono passati in 30 anni dai 1938 del 1991 ai 295 del 2021. Intanto sono aumentati significativamente gli ergastolani, dai 1.224 nel 2005 ai 1.810 del 2021. Non c’è, dunque, alcun nesso tra indici di delittuosità, stato della criminalità e lunghezza delle pene]

  4. Di grande rilievo sono, infine, i cambiamenti interventi negli apparati, dalla polizia alla magistratura, su cui troppo poco si è riflettuto e che andrebbero seguiti in modo più attento tenendo anche conto che non si tratta di realtà omogenee e che sono percorsi, come la società, da diversità interne non insignificanti:
    • per la polizia la svolta è la legge 23 agosto 2004 n. 226 (che ha completato il percorso di abolizione del servizio militare obbligatorio e trasformato le forze armate in corpo di professionisti);
    • per la magistratura il discorso è più complesso anche perché i cambiamenti di indirizzo sono frutto non di una inesistente “catena di comando” ma di un clima culturale e politico che non è stato mai oggetto di ricerche empiriche adeguate.

Conclusione. Quel che è certo è che siamo in presenza non di casi isolati ma di una crisi di sistema con trasformazioni autoritarie in atto di lungo periodo. Saperlo non basta a risolverla ma forse può aiutarci ad affrontarla e contrastarla con la consapevolezza e la determinazione necessarie.