Magari si è trattato di una semplice svista, forse di una banale dimenticanza. Fatto sta che il Tribunale di Torino ha dimenticato in un cassetto un’ordinanza della Corte Costituzionale salvando un imputato (un tempo eccellente) da un processo per diffamazione.
Ma un dubbio rimane...

E se confrontiamo questa piccola vicenda con altri atteggiamenti dello stesso Tribunale nei confronti dei No Tav i dubbi aumentano. Sono soltanto dubbi, s’intende.

Sono passati oltre otto anni dal gennaio 2014. Oggi come allora il treno ad alta velocità Torino-Lione è fermo al palo e la realizzazione della nuova linea ferroviaria è rinviata a tempo indeterminato nonostante gli sforzi e le pressioni dei promotori e della politica di ogni colore. In compenso proseguono la militarizzazione esasperata della Val Susa e la repressione dei No Tav, tanto con azioni di polizia quanto in sede giudiziaria. Il solo fatto nuovo, in verità vecchio ormai di qualche anno, è la sparizione dal coro dei sì Tav di Stefano Esposito, travolto dalla mancata rielezione in Parlamento e da alcune disavventure giudiziarie. Di quella voce non si sente certo la mancanza, ma può essere utile segnalare il seguito di una delle temerarie accuse in cui l’ex senatore si dilettava nei suoi anni ruggenti.
Tra i principali destinatari degli strali di Esposito c’era Livio Pepino, già magistrato, colpevole, agli occhi dell’allora pasdaran del treno superveloce, di continuare a denunciare e documentare, oltre all’inutilità del treno, l’abnorme spirale repressiva contro il movimento No Tav. A seguito di alcune dichiarazioni particolarmente infondate e pesanti Pepino si è rivolto all’autorità giudiziaria sia in sede penale che in sede civile e, quando si è arrivati alla conclusione del giudizio, le dichiarazioni di Esposito sono state ritenute diffamatorie con conseguente condanna al risarcimento dei danni (sentenza 29 gennaio 2016 del Tribunale di Torino confermata, sul punto, dalla Corte d’appello il 29 gennaio 2018).
Restava pendente, fino a ieri, una vicenda che vale la pena raccontare.
Il 13 gennaio 2014 Esposito, intervistato nella trasmissione “La zanzara” di Radio 24, rispondendo alla domanda se sapeva chi, il giorno precedente, aveva messo sulla porta di casa sua delle bottiglie incendiarie, affermava testualmente: «materialmente no, chi sono i mandanti, però, è fin troppo facile. È pieno di librerie e di libri contro la Torino-Lione che giustificano anche le azioni violente. C’è il libro di Livio Pepino, ex capo di Magistratura Democratica […] che basta leggerlo!», aggiungendo di ritenere “cattivi maestri” «gente come Pepino che, invece di prendere le distanze, scrivono dei libri per attaccare Caselli». A fronte di ciò Pepino ha, ovviamente, presentato una querela per diffamazione che ha dato origine a un processo dai passaggi a dir poco anomali.
Come normalmente avviene per i fatti che non hanno come imputati esponenti No Tav (che beneficiano, per questo, di corsie temporali privilegiate) la querela è rimasta a lungo in attesa su qualche scrivania o in qualche armadio della Procura. Quando poi – eravamo ormai a fine 2017 ‒ il processo è arrivato in Tribunale, ci ha pensato Esposito a chiedere, prudentemente, la trasmissione degli atti al Senato essendo le sue dichiarazioni nient’altro che «opinioni espresse nell’esercizio delle sue funzioni di senatore» (sic!), come tali non sindacabili dal giudice ai sensi dell’art. 68 Costituzione. Così il processo è stato sospeso e il Senato ha avallato la richiesta dell’imputato eccellente. Troppo, evidentemente, anche per il Tribunale di Torino che – su richiesta della difesa di Pepino – ha sollevato conflitto di competenza davanti alla Corte costituzionale avendo il Senato «illegittimamente sottratto all’autorità giudiziaria il potere di decidere in ordine al reato contestato a Stefano Esposito». Con ordinanza depositata il 10 luglio 2020 la Corte Costituzionale ha – come ovvio – dichiarato ammissibile il conflitto e restituito gli atti al Tribunale per la comunicazione al Senato, necessaria ai fini del giudizio di merito.
Sembrava a questo punto, che dopo sei anni e mezzo, si potesse finalmente cominciare a discutere delle dichiarazioni di Esposito. E invece no. Curiosamente il Tribunale di Torino si è dimenticato di procedere alle dovute comunicazioni nei termini di legge. Così il processo è finito ancor prima di iniziare: la Corte costituzionale non ha potuto prendere in esame la declaratoria del Senato e il giudice non ha potuto far altro che pronunciare, il 14 settembre 2021, sentenza di assoluzione di Esposito «perché non punibile ai sensi dell’art. 68 Costituzione».
Incredibile ma vero. Per vedere riconosciuto il carattere diffamatorio delle dichiarazioni di Esposito non rimaneva a Pepino che iniziare una nuova causa civile per risarcimento danni. Ed era ciò che, se non altro per una questione di principio, si apprestava a fare quando, inaspettatamente, il prudente Esposito (evidentemente timoroso dell’esito del giudizio civile) ha proposto una transazione sulla base di un modesto risarcimento economico ma, insieme, di una lettera di scuse con totale ammissione del carattere diffamatorio delle proprie dichiarazioni. Questo il testo della lettera: «In relazione alle mie dichiarazioni rilasciate alla trasmissione radiofonica “La Zanzara” in data 13 gennaio 2014, intendo precisarLe quanto segue. In quell’occasione, preso dalla tensione del momento per il ritrovamento di tre bottiglie incendiarie sull’uscio di casa mia, ho espresso concetti oggettivamente diffamatori della Sua persona, dei quali mi scuso: non intendevo e non intendo in alcun modo mettere in collegamento la Sua persona con il ritrovamento di detti ordigni incendiari davanti alla porta del mio alloggio. La diversità di posizioni tra noi su questioni di rilevante valore politico-sociale non deve mai trascendere in gratuite accuse che diffamino la persona. Spero che queste mie, sia pur tardive, scuse vengano da Lei accettate e pongano fine ad un estenuante contenzioso».
Così la vicenda si è chiusa. La conclusione l’ha tratta lo stesso Esposito: le sue accuse erano gratuite e diffamatorie. Non c’è più neppur bisogno che lo dichiari un giudice. Ci sono voluti otto anni ma, a volte, il tempo è galantuomo.


Non abbiamo raccontato questa vicenda per puro compiacimento né per dare nuova visibilità a un ex senatore di cui non sentiamo certo la mancanza né come parlamentare né come intrepido guerriero di un fronte SI TAV senza se e senza ma.
Lo abbiamo fatto perché anche da questa vicenda emergono aspetti che più volte abbiamo denunciato.
Tralasciamo pure i confronti con i tempi della giustizia che quando si tratta di giudicare militanti no Tav apre corsie preferenziali che garantiscono tempi incredibilmente rapidi.
Ma non possiamo dimenticare le denunce nei confronti di personaggi riconducibili al fronte si tav che si sono perse per strada e di cui forse non sapremo mai che fine hanno fatto. Per quanto ci riguarda vale ad esempio per l’esposto-denuncia presentato a novembre 2020 alla Procura di Roma che pare si sia perso nel nulla.
E sull’esito della querela presentata lo scorso novembre nei confronti del direttore di Repubblica che ci accomunava ai terroristi degli anni ‘70 sapremo mai qualcosa?
Sono domande che aspettano risposta.